SAN COSTANZO VESCOVO, TITOLARE DELLA BASILICA CONCATTEDRALE E PARROCCHIALE

Agli inizi degli anni Sessanta si registra un episodio che potrebbe costituire l’unico miracolo conosciuto attribuibile a San Costanzo; ovvero, per essere più esatti, chi di esso fu protagonista non esitò ad individuare nell’intercessione del Santo lo scampato pericolo di vita conseguente un pauroso incidente stradale verificatosi presso Capistrello, in valle Roveto. A rimanerne coinvolto fu il sindaco di Aquino dell’epoca Nicola Mazzaroppi, sulla strada di ritorno da una battuta di caccia in Abruzzo. Le cronache riportano di un volo dell’autovettura per una cinquantina di metri dal quale, tuttavia, sia il sindaco che i compagni di caccia, che viaggiavano con lui, uscirono praticamente indenni.

Non si gridò al miracolo ma poco ci mancò. Del resto, come astenersene essendo il primo settembre (1962), ovvero proprio il giorno della festa di San Costanzo?

Il sindaco Mazzaroppi, fortemente convinto di una benevola mediazione del Santo patrono di Aquino, volle ricambiare adeguatamente il “favore” ricevuto, tant’è che il primo settembre dell’anno successivo San Costanzo beneficiò di una festa che probabilmente sin lì non gli era stata mai fatta e di cui mai più pensava di essere onorato.

Ma negli intenti del sindaco vi era anche quello di contribuire alle spese per l’acquisto di una nuova statua del Santo, che in quel tempo s’intendeva realizzare, anche perché quella venerata allora, scampata alle vicende belliche, non era niente di più che un mezzo busto e, quindi, si pensava, non sufficientemente rappresentativa. Fu realizzata una statua scolpita nel legno in Val Gardena il 1° settembre 1964.

San Costanzo è, ovviamente, anche destinatario di “voti”. Il prof. Carlo Quagliozzi ricorda quella notte – aveva poco più che cinque anni – in cui su Aquino si abbatté un violento temporale, anzi, quasi un ciclone: “Ad ogni livido guizzare dei fulmini, sussultavo con raccapriccio, mentre ad un tempo vedevo squarciare il buio della camera; ad ogni rimbombare cupo e assordante dei tuoni rabbiosi, riuscivo sì e no a farmi il segno della croce; ad ogni scroscione della fittissima pioggia…, ad ogni folata di ventaccio… mi sembrava ricevere il “colpo di grazia”! Quand’ecco… un’idea, un’idea seguita da un decisivo “Voto”, voto religioso, come si costumava in quegli anni dianzi a casi o situazioni difficili:

  • Domattina, se sarò ancora vivo, pregherò la mia buona mamma Agnese di togliere dalla vetrina dell’oreficeria un anello d’oro, oro vero, bello, lucente e lo andrò a offrire in Voto a San Costanzo, antico vescovo e divin protettore della nostra povera Aquino.

 

Il cielo del mattino seguente era ancora carico di nuvolaglia, ma non pioveva più”. Ne parlò con la mamma la quale non esitò a porgergli l’anello e il prof. Quagliozzi corse verso la Cattedrale per offrirlo a San Costanzo; si imbatté in don Fortuna, reverendissimo canonico, a cui porse la scatolina “Egli sorrise alla mia ‘idea’, prese in consegna la scatolina e s’avviò con passo solenne verso la statua del Santo Costanzo. Ma incontrò subito una difficoltà nel cercare di infilare il mio anellino al dito del Santo: questi, ahimè, aveva la mano destra occupata a sorreggere il suo librone pieno di sapienza, mentre il braccio sinistro era troppo in alto, verso il cielo… E allora? Allora dissi a don Fortuna di legare l’anellino con un nastrino e stringerlo al polso del Santo. Non importa se esso pendolerà. Il ‘Voto’ per me è valido lo stesso e Santo Costanzo sarà ugualmente contento”.

Riferimenti a San Costanzo nell’intera Diocesi di Aquino, Sora e Pontecorvo si incontrano solo a San Giovanni Incarico e a Colle San Magno. Nella chiesa della prima località, in un atto notarile del 7 marzo 1678, viene segnalata la presenza di una “reliquia di un pezzo di osso del braccio di San Costanzo Vescovo di Aquino”, a Colle San Magno, invece, e più precisamente a Cantalupo, suo borgo medievale, c’erano degli aquinati che, non dimentichi di quel vescovo, che era stato il buon pastore della loro terra d’origine, vollero testimoniare la memoria di San Costanzo nel nuovo sito in cui erano andati a stabilirsi e che sarebbe divenuto la loro nuova patria,  intitolando, con due targhe toponomastiche d’epoca, un largario e un “vico” al Santo Patrono di Aquino.

 

Si racconta, infine, che quando ancora le processioni erano solite frequentare la zona della terza cattedrale e della sua casa (nei pressi dell’entrata dell’odierno Vallone), in occasione di quella in onore del Patrono, il 1° settembre, giorno della sua festa, al fine di evitare che il Santo potesse rientrare in possesso della “propria” abitazione semplicemente “entrandovi”, pare che coloro i quali nel tempo ne furono proprietari, e ciò ancora fino all’ultima guerra, e forse anche dopo al fine di scongiurare una tale eventualità, in quella circostanza ponevano particolare cura nel chiuderne l’accesso.

 

Nel Museo della Città di Aquino è conservata l’iscrizione del “presul Constantius” che ecclesiasticamente parlando equivale a “episcopus” (vescovo). ?

 

Dal Martirologio Romano: “Ad Aquino nel Lazio, san Costanzo, vescovo, di cui il papa san Gregorio Magno loda il dono della profezia”.

Cognato di un tale Landolfo di San Giovanni Incarico che discendeva da una linea collaterale dei signori di Aquino San Costanzo si cimentò nei generi più disparati, dalla storiografia all’omiletica, dall’esegesi all’agiografia e persino nella polemica anti-bizantina.

Quanto sappiamo di Costanzo deriva da due passi di Gregorio Magno, il quale riferisce che questo santo vescovo di Aquino era venuto a morte non molto tempo prima, durante il pontificato di papa Giovanni III (561-574). Dotato di spirito profetico, giunto in fin di vita, ai suoi vicini che, piangendone ormai imminente la perdita, gli domandavano trepidanti chi avrebbero avuto dopo di lui, Costanzo rispose: «Dopo Costanzo uno stalliere e, dopo lo stalliere, un tintore di panni. Abbiti ancor questo, o Aquino» Ciò detto spirò. Gli succedette nella cura pastorale il suo diacono Andrea, che prima aveva governato muli e cavalli, e, morto questi, fu elevato alla dignità episcopale Giovino, che nella stessa città era stato lavatore di panni. Egli era ancor vivo quando, devastata Aquino dai Longobardi, gli abitanti parte furono uccisi dagli invasori, parte perirono per fiera pestilenza, sicché, dopo la morte di lui, non si trovò più né chi fosse vescovo, né per chi alcuno dovesse esserlo. Si adempì così quanto l’uomo di Dio aveva annunziato: dopo la morte dei due suoi successori, la sua Chiesa non avrebbe avuto più alcun pastore.

Già nel narrare le gesta di san Benedetto, Gregorio aveva ricordato che un chierico di Aquino, vessato dal demonio, era stato indirizzato dal vescovo Costanzo a molti santuari di martiri. Questi, però, non vollero restituirgli la salute, per dimostrare quanta grazia fosse in Benedetto, che, infatti, avuto davanti il chierico, con le sue preghiere subito lo liberò dal nemico. Abbiamo perciò da Gregorio Magno stesso due dati certi per la cronologia della vita di Costanzo: era già vescovo di Aquino mentre era ancor vivo san Benedetto (m. 547) e morì durante il pontificato di Giovanni III (561-73). Lo storico Pasquale Cayro, invero, ha creduto si trattasse di due vescovi di Aquino di nome Costanzo, dei quali il primo sarebbe vissuto al tempo di san Benedetto, l’altro durante il pontificato di Giovanni III. Ma quantunque Gregorio non dichiari espressamente l’identità della persona, questa appare evidente dalle locuzioni da lui usate.

In alcuni codici del Martirologio Geronimiano si trova al 1° settembre: «In Casino Constantii». Non è certo, però, che questo Costanzo sia proprio il vescovo di Aquino. Gli Acta Sanctorum (citt. in bibl., p. 245) riportano un elogio del santo, premesso alla narrazione di Gregorio Magno, a modo d’introduzione. L’anonimo autore di questa premessa si vale del significato letterale del nome Costanzo per lodare la sua imitatio Christi nella coerenza di vita rispetto alla parola predicata; la costanza del santo vescovo nell’esercizio delle virtù cristiane; la capacità taumaturgica ovvero il potere di fare miracoli finanche post mortem; la capacità di predire il futuro e la perseveranza di lui fino ai suoi giorni estremi.

Non pare che questo breve testo possa essere il prologo di una leggenda: ne sembra, piuttosto, l’ultimo tratto. Negli Acta Sanctorum è stato riprodotto da un piccolo ms., non troppo antico, fornito dall’Ughelli: da chi l’abbia avuto quest’ultimo, non risulta. L’autore non ci è noto: potrebbe forse trattarsi di un brano superstite della leggenda del santo, scritta da Pietro Diacono intorno al 1125 e da lui dedicata al vescovo di Aquino, Guarino. Questa leggenda è ricordata da Pietro Diacono stesso, ma non ci è pervenuta tra le sue opere. Forse essa fu composta e dedicata a Guarino quando, dopo il lungo periodo di abbandono seguito alla devastazione longobarda, la sede episcopale aquinate si ricostituì e ricercò le memorie del suo santo patrono. Se anche la leggenda, scritta dal diacono cassinese a distanza di parecchi secoli dalla vita del personaggio di cui tratta, non poteva essere troppo attendibile, essa è però per noi testimonianza del culto prestato a Costanzo nella rinata diocesi.

Inoltre, nelle ultime due redazioni dell’autobiografia petrina, il vescovo Costanzo è insignito oltre al titolo di episcopus electus anche di confessoris, ovvero un testimone privilegiato della fede, che Pietro Diacono addita come modello esemplare, appartenente sì ad un passato distante ma ancora eloquente sia per il movimento benedettino sia per la stessa Chiesa di Aquino, che trovava nel suo ultimo grande vescovo, prima della decadenza approdata al crollo della sede, un protettore ed un intercessore cui votare la risorta diocesi, vivacizzando un culto di sicuro mai smarrito dalla tradizione orale.

Dai due episodi dei Dialogi di Gregorio Magno ben poco veniamo a conoscere della sua vita e del suo episcopato, ma in maniera luminosissima appare la sua santità acquisita nella perseveranza dei divini servizi, con assoluta costanza, fino all’estremo della sua vita. Data della sua morte è comunemente ritenuto l’anno 566. Dove sia stato sepolto dopo la sua morte e quando sia iniziato il culto in suo onore è difficile poterlo precisare, non essendoci notizie precise in merito, se non molto posteriori, e pertanto si può solo congetturare. È certo che il suo culto è stato sempre vivo in Aquino se consideriamo che fin dal 1068 si hanno notizie dell’esistenza di una chiesa in suo onore, ove furono conservate per alcuni secoli le sue reliquie, e che in seguito divenne la chiesa Cattedrale. Le vicende delle sue reliquie sono legate intimamente al succedersi dei vari spostamenti del titolo della Cattedrale, in alcune chiese allora esistenti. Nel 1592 i suoi resti erano ancora conservati sotto l’altare maggiore dell’ex abbazia benedettina, a lui dedicata, e da quella data divenuta chiesa Cattedrale. Non sono passati nemmeno cento anni che già nel 1664, dovendosi traslare la Cattedrale nella piccola chiesa di San Pietro, presso la porta dell’Aquino medievale, vengono trasferite  le sue ossa in questa nuova sede. Nel 1680 il vescovo Giuseppe Ferrari, con il contributo di quattromila ducati donati dal duca Boncompagni, dava inizio alla fabbrica della nuova chiesa dedicata a San Costanzo, che sarebbe poi divenuta la nuova Cattedrale nei pressi del Palazzo dei Conti d’Aquino, esistita fino agli ultimi eventi bellici. Il 10 dicembre 1742 il vescovo Francesco Antonio Spadea procedette alla ricognizione delle reliquie del santo patrono Costanzo, rinvenute sotto l’altare dell’antica cattedrale dedicata a San Pietro. Dopo averle onorevolmente riposte in una nuova urna lignea, le fece trasferire nella nuova cattedrale  dove furono collocate sotto l’altare maggiore. Il medesimo vescovo ci fa anche sapere che, fino al 1644, il corpo del santo era stato conservato in una chiesa a lui dedicata, lontana dalle mura della città e ormai non più esistente.

Nel 1912, dovendosi allargare il presbiterio della cattedrale, per la necessità di spostare più indietro l’altare, si trovarono due urne di marmo. Una lapide di pietra dietro l’altare maggiore dettava l’epigrafe che ricordava la traslazione nel 1744. In realtà lo Spadea aveva traslato tanto le ossa del santo Costanzo, quanto quelle dell’omonimo vescovo i cui resti giacevano nella cappella di San Pietro.

Mons. Antonio Iannotta, Vescovo di Aquino, Sora e Pontecorvo, su richiesta del Capitolo della Cattedrale procedeva, il 28 settembre 1905, a chiusura del Sinodo Diocesano, ad una nuova ricognizione delle reliquie, che venivano poi, l’anno seguente, nuovamente ricollocate nell’antica urna marmorea realizzata da Mons. Spadea nel 1746.

Dopo i bombardamenti aerei del 1944, le ossa del santo sarebbero state rinvenute tra le macerie al rientro dei primi cittadini dopo lo sfollamento, e sistemate momentaneamente in altra chiesa, e infine dopo la ricognizione canonica del 16 settembre 1956 ad opera del Vescovo Biagio Musto, definitivamente sistemate in Cattedrale.

La Cattedrale di San Costanzo, distrutta nel maggio 1944 (per eventi bellici), è stata ricostruita dal vescovo della diocesi di Aquino, Sora e Pontecorvo S.E. Mons. Biagio Musto e dedicata, il 19 ottobre 1963, a San Costanzo Vescovo e San Tommaso d’Aquino.

I Dialogi di Papa San Gregorio Magno riferiscono che l’esaurimento delle file del clero, cui attingere candidati, dovette essere la ragione determinante la crisi del vescovado di Aquino, che, come nucleo, sia pur decimato nell’elemento indigeno, continuò comunque a vivere in un incipiente regime di promiscuità razziale, quantunque non si possa escludere l’esodo di parte dei superstiti, irriducibili all’incontro con la nuova realtà, in luoghi più appartati sulle alture circostanti. Contestualmente l’abbassamento del tasso di cattolicità per la fusione con il nuovo inquilino longobardo frenò altresì qualsiasi iniziativa romana per il reclutamento del clero nelle risorse locali: occorreva, pertanto, una nuova evangelizzazione per riedificare una Chiesa locale spenta che fu riportata in auge durante l’episcopato di San Costanzo.

Il culto di San Costanzo è radicato fortemente dove il Santo si venera; tuttavia, ad Aquino, pochi portano il nome del Santo Vescovo. Una situazione che mons. Giovanni Battista Colafrancesco aveva già avuto modo di evidenziare affermando che, come il nome non è “frequente”, così la stessa “devozione non è sentitissima”. E aggiunge: “Durante gli anni del mio ministero parrocchiale, ho cercato di ridestare tale devozione; sono riuscito certamente a mantenerla e a non farla ulteriormente decadere; non penso però che l’abbia fatta crescere nel mio popolo. Non per nulla, a Patrono Principale della Città e Diocesi si è potuto sostituire San Costanzo con San Tommaso d’Aquino”, rimanendo tuttavia San Costanzo “titolare” della Basilica Cattedrale e Parrocchiale.

INNO A SAN COSTANZO VESCOVO

  1. Oggi un canto festoso si elevi

al pastore del mistico gregge!

Ei da secoli guarda e protegge

questa terra e la nostra Città.

 

Rit. Osanna, o Costanzo, celeste Patrono,

       osanna al tuo nome, divin protettor!

       Tu vigila o padre, dall’alto tuo trono

       e spargi su noi le grazie del cuor.

 

    2.  La tua fede fu viva, o Costanzo,

ed ardente di fuoco il tuo amore:

brillò sempre nel grande tuo cuore

la speranza che c’indica il ciel.

Rit.

3. Or che fulgido siede tra i santi

ti splende l’aureola in fronte,

guarda ai figli: tu guidali al monte

dov’è il Regno di Cristo Gesù.

Rit.

 

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San Costanzo Vescovo di Aquino: al centro, statua a mezzo busto risalente al XVII secolo e probabilmente coeva della quarta Cattedrale di Aquino; a sinistra, statua lignea realizzata nel 1964 da una ditta di Ortisei in Val Gardena al di sotto della quale è custodito il reliquiario contenente una parte dell’osso di una gamba del Santo (a destra). La statua a sinistra è conservata nella Basilica Concattedrale. Quella al centro è custodita presso il Salone del Centro pastorale “San Costanzo Vescovo”.

Solenni festeggiamenti si celebrano il 1° settembre. Alla festa è associato il grande PALIO DELLA CONTEA D’AQUINO

SAN TOMMASO D’AQUINO, PATRONO DELLA CITTA’ DI AQUINO, SACERDOTE E DOTTORE DELLA CHIESA, PATRONO DELLA DIOCESI SORA-CASSINO-AQUINO-PONTECORVO E COTITOLARE DELLA BASILICA CONCATTEDRALE E PARROCCHIALE

Tommaso dei Conti d’Aquino nacque da Landolfo d’Aquino e Teodora Caracciolo nel 1225 ad Aquino, Città della Contea appartenente alla sua famiglia.  Essendo l’ultimo dei figli fu mandato come oblato a Montecassino, con la speranza del padre che diventasse abate del monastero. L’oblatura non comportava che, raggiunta la maggiore età, l’oblato diventasse a tutti i costi monaco ma consentiva ai ragazzi di scegliere. All’età di 14 anni lasciò l’abbazia  benedettina che era stata militarmente occupata da Federico II e quindi andò a Napoli per completare gli studi. Nella Città Partenopea studiò le Arti liberali ed ebbe l’opportunità di conoscere il pensiero di Aristotele il cui insegnamento, allora, era proibito nelle facoltà ecclesiastiche. Inoltre conobbe nel vicino convento di San Domenico i frati Predicatori e rimase affascinato per il loro stile di vita e per la loro profonda predicazione. Aveva quasi 20 anni, quando decise di entrare nel 1244 nell’Ordine Domenicano; i suoi superiori, intuito il talento del giovane, decisero di mandarlo a Parigi per completare gli studi. Intanto i suoi familiari, specie la madre Teodora rimasta vedova, che sperava in lui per condurre gli affari del casato, rimasero di stucco per questa scelta; pertanto chiese all’imperatore che si trovava in Toscana, di dare una scorta ai figli, che erano allora al suo servizio, affinché questi potessero bloccare Tommaso, già in viaggio verso Parigi. I fratelli poterono così fermarlo e riportarlo verso casa, sostando prima nel castello paterno di Monte San Giovanni, dove Tommaso fu chiuso in una cella; il sequestro durò complessivamente un anno; i familiari nel contempo, cercarono in tutti i modi di farlo desistere da quella scelta, ritenuta non consona alla dignità della casata. Arrivarono perfino ad introdurre, una sera, una bellissima ragazza nella cella per tentarlo nella castità; ma Tommaso, di solito pacifico, perse la pazienza e con un tizzone ardente in mano, la fece fuggire via. La castità del giovane domenicano era proverbiale, tanto da meritare in seguito il titolo di “Dottore Angelico”. Dopo che i suoi familiari si convinsero, ritornato a Napoli, il Superiore Generale, Giovanni il Teutonico, ritenne opportuno anche questa volta, di trasferirlo all’estero per approfondire gli studi; dopo una sosta a Roma, Tommaso continuò a Colonia gli studi filosofici e teologici e fu discepolo di Alberto Magno. Per il suo atteggiamento silenzioso, fu soprannominato dai compagni di studi “il bue muto”, riferendosi anche alla sua corpulenza; s. Alberto Magno, venuto in possesso di alcuni appunti di Tommaso, su una difficile questione teologica discussa in una lezione, dopo averli letti, decise di far sostenere allo studente italiano una disputa, che Tommaso seppe affrontare e svolgere con intelligenza. Stupito, il Maestro davanti a tutti esclamò: “Noi lo chiamiamo bue muto, ma egli con la sua dottrina emetterà un muggito che risuonerà in tutto il mondo”. Nel 1252, da poco ordinato sacerdote, Tommaso d’Aquino, giunse a Parigi e fu indicato dal suo grande maestro ed estimatore s. Alberto, quale candidato alla Cattedra di “baccalarius biblicus” all’Università, rispondendo così ad una richiesta del Generale dell’Ordine, Giovanni di Wildeshauen. Tommaso aveva appena 27 anni e si ritrovò ad insegnare a Parigi sotto il Maestro Elia Brunet, preparandosi nel contempo al dottorato in Teologia. Ogni Ordine religioso aveva diritto a due cattedre, una per gli studenti della provincia francese e l’altra per quelli di tutte le altre province europee; Tommaso fu destinato ad essere “maestro degli stranieri”. Ma la situazione all’Università parigina non era tranquilla in quel tempo; i professori parigini del clero secolare, erano in lotta contro i colleghi degli Ordini mendicanti, scientificamente più preparati, ma considerati degli intrusi nel mondo universitario; e quando nel 1255-56, Tommaso divenne Dottore in Teologia a 31 anni, gli scontri fra Domenicani e clero secolare, impedirono che potesse salire in cattedra per insegnare; in questo periodo Tommaso difese i diritti degli Ordini religiosi all’insegnamento, con un celebre e polemico scritto: “Contra impugnantes”; ma furono necessari vari interventi del papa Alessandro IV, affinché la situazione si sbloccasse in suo favore. Nell’ottobre 1256 poté tenere la sua prima lezione, grazie al cancelliere di Notre-Dame, Americo da Veire, ma passò ancora altro tempo, affinché il professore italiano fosse formalmente accettato nel Corpo Accademico dell’Università. Già con il commento alle “Sentenze” di Pietro Lombardo, si era guadagnato il favore e l’ammirazione degli studenti; l’insegnamento di Tommaso era nuovo; professore in Sacra Scrittura, organizzava in modo insolito l’argomento con nuovi metodi di prova, nuovi esempi per arrivare alla conclusione; egli era uno spirito aperto e libero, fedele alla dottrina della Chiesa e innovatore allo stesso tempo. In questo periodo iniziò la stesura del De ente et essentia e della Summa Contra Gentiles. Nel 1259 fu richiamato in Italia dove continuò a predicare ed insegnare, prima a Napoli nel convento culla della sua vocazione, poi ad Anagni dov’era la curia pontificia (1259-1261), poi ad Orvieto (1261-1265), dove il papa Urbano IV fissò la sua residenza dal 1262 al 1264. Il pontefice si avvalse dell’opera dell’ormai famoso teologo, residente nella stessa città umbra; Tommaso collaborò così alla compilazione della “Catena aurea” (commento continuo ai quattro Vangeli) e sempre su richiesta del papa, impegnato in trattative con la Chiesa Orientale, Tommaso approfondì la sua conoscenza della teologia greca, procurandosi le traduzioni in latino dei padri greci e quindi scrisse un trattato “Contra errores Graecorum”, che per molti secoli esercitò un influsso positivo nei rapporti ecumenici. Sempre nel periodo trascorso ad Orvieto, Tommaso ebbe dal papa l’incarico di scrivere la liturgia e gli inni della festa del Corpus Domini, istituita l’8 settembre 1264, a seguito del miracolo eucaristico, avvenuto nella vicina Bolsena nel 1263, quando il sacerdote boemo Pietro da Praga, che nutriva dubbi sulla transustanziazione, vide stillare copioso sangue, dall’ostia consacrata che aveva fra le mani, bagnando il corporale, i lini e il pavimento. Fra gli inni composti da Tommaso d’Aquino, dove il grande teologo profuse tutto il suo spirito poetico e mistico, da vero cantore dell’Eucaristia, c’è il famoso “Pange, lingua, gloriosi Corporis mysterium”, di cui due strofe inizianti con “Tantum ergo”, si cantano da allora ogni volta che si impartisce la benedizione col SS. Sacramento. Nel 1265 fu trasferito a Roma, a dirigere lo “Studium generale” dell’Ordine Domenicano, che aveva sede nel convento di Santa Sabina; nei circa due anni trascorsi a Roma, Tommaso ebbe il compito di organizzare i corsi di teologia per gli studenti della Provincia Romana dei Domenicani. A Roma, si rese conto che non tutti gli allievi erano preparati per un corso teologico troppo impegnativo, quindi cominciò a scrivere per loro una “Summa theologiae”, per “presentare le cose che riguardano la religione cristiana, in un modo che sia adatto all’istruzione dei principianti”. La grande opera teologica, che gli darà fama in tutti i secoli successivi, fu divisa in uno schema a lui caro, in tre parti: la prima tratta di Dio uno e trino e della “processione di tutte le creature da Lui”; la seconda parla del “movimento delle creature razionali verso Dio”; la terza presenta Gesù “che come uomo è la via attraverso cui torniamo a Dio”. L’opera iniziata a Roma nel 1267 e continuata per ben sette anni, fu interrotta improvvisamente il 6 dicembre 1273 a Napoli, tre mesi prima di morire. Intanto Tommaso d’Aquino, per i suoi continui trasferimenti, non poteva più vivere una vita di comunità, secondo il carisma di s. Domenico di Guzman e ciò gli procurava difficoltà; i suoi superiori pensarono allora di affiancargli un frate di grande valore, sacerdote e lettore in teologia, fra Reginaldo da Piperno; questi ebbe l’incarico di assisterlo in ogni necessità, seguendolo ovunque, confessandolo, servendogli la Messa, ascoltandolo e consigliandolo; in altre parole i due domenicani vennero a costituire una piccola comunità, dove potevano quotidianamente confrontarsi. Nel 1267, Tommaso dovette mettersi di nuovo in viaggio per raggiungere a Viterbo papa Clemente IV, suo grande amico, che lo volle collaboratore nella nuova residenza papale; il pontefice lo voleva poi come arcivescovo di Napoli, ma egli decisamente rifiutò. Nel decennio trascorso in Italia, in varie località, Tommaso compose molte opere, fra le quali, anche “De unitate intellectus”; “De Redimine principum” (trattato politico, rimasto incompiuto); le “Quaestiones disputatae, ‘De potentia’ e ‘De anima’” e buona parte del suo capolavoro, la già citata “Summa teologica”, il testo che avrebbe ispirato la teologia cattolica fino ai nostri tempi. All’inizio del 1269 fu richiamato di nuovo a Parigi, dove all’Università era ripreso il contrasto fra i maestri secolari e i maestri degli Ordini mendicanti; occorreva la presenza di un teologo di valore per sedare gli animi. A Parigi, Tommaso, oltre che continuare a scrivere le sue opere, ben cinque, e la continuazione della Summa, dovette confutare con altri celebri scritti, gli avversari degli Ordini mendicanti da un lato e dall’altro difendere il proprio aristotelismo nei confronti dei Francescani, fedeli al neoplatonismo agostiniano, e soprattutto confutò alcuni errori dottrinari, dall’averroismo, alle tesi eterodosse di Sigieri di Brabante sull’origine del mondo, sull’anima umana e sul libero arbitrio. Nel 1272 ritornò in Italia, a Napoli, facendo sosta a Montecassino, Aquino, Molara; Ceccano; nella capitale organizzò, su richiesta di Carlo I d’Angiò, un nuovo “Studium generale” dell’Ordine Domenicano, insegnando per due anni al convento di San Domenico, il cui Studio teologico era incorporato all’Università. Qui intraprese la stesura della terza parte della Summa, rimasta interrotta e completata dopo la sua morte dal fedele collaboratore fra Reginaldo, che utilizzò la dottrina di altri suoi trattati, trasferendone i dovuti paragrafi. Tommaso aveva goduto sempre di ottima salute e di un’eccezionale capacità di lavoro; la sua giornata iniziava al mattino presto, si confessava a Reginaldo, celebrava la Messa e poi la serviva al suo collaboratore; il resto della mattinata trascorreva fra le lezioni agli studenti e segretari e il prosieguo dei suoi studi; altrettanto faceva nelle ore pomeridiane dopo il pranzo e la preghiera, di notte continuava a studiare, poi prima dell’alba si recava in chiesa per pregare, avendo l’accortezza di mettersi a letto un po’ prima della sveglia per non farsi notare dai confratelli. Ma il 6 dicembre 1273 gli accadde un fatto strano, mentre celebrava la Messa, qualcosa lo colpì nel profondo del suo essere, perché da quel giorno la sua vita cambiò ritmo e non volle più scrivere né dettare altro. Ci furono vari tentativi da parte di padre Reginaldo, di fargli dire o confidare il motivo di tale svolta; solo più tardi Tommaso gli disse: “Reginaldo, non posso, perché tutto quello che ho scritto è come paglia per me, in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato”, aggiungendo: “L’unica cosa che ora desidero, è che Dio dopo aver posto fine alla mia opera di scrittore, possa presto porre termine anche alla mia vita”. Anche il suo fisico risentì di quanto gli era accaduto quel 6 dicembre, non solo smise di scrivere, ma riusciva solo a pregare e a svolgere le attività fisiche più elementari. La rivelazione interiore che l’aveva trasformato, era stata preceduta, secondo quanto narrano i suoi primi biografi, da un mistico colloquio con Gesù; infatti mentre una notte era in preghiera davanti al Crocifisso (oggi venerato nell’omonima Cappella, della grandiosa Basilica di S. Domenico in Napoli), egli si sentì dire: “Tommaso, tu hai scritto bene di me. Che ricompensa vuoi?” e lui rispose: “Nient’altro che te, Signore”. Ed ecco che quella mattina di dicembre, Gesù Crocifisso lo assimilò a sé, il “bue muto” che fino allora aveva sbalordito il mondo con il muggito della sua intelligenza, si ritrovò come l’ultimo degli uomini, un servo inutile che aveva trascorso la vita ammucchiando paglia, di fronte alla sapienza e grandezza di Dio, di cui aveva avuto sentore. Il suo misticismo, è forse poco conosciuto, abbagliati come si è dalla grandezza delle sue opere teologiche; celebrava la Messa ogni giorno, ma era così intensa la sua partecipazione, che un giorno a Salerno fu visto levitare da terra. Le sue tante visioni hanno ispirato ai pittori un attributo, è spesso raffigurato nei suoi ritratti, con una luce raggiata sul petto o sulla spalla. Con l’intento di staccarsi dall’ambiente del suo convento napoletano, che gli ricordava continuamente studi e libri, in compagnia di Reginaldo, si recò a far visita ad una sorella, Teodora d’Aquino, contessa di San Severino; ma il soggiorno fu sconcertante, Tommaso assorto in una sua interiore estasi, non riuscì quasi a proferire parola, tanto che la sorella dispiaciuta, pensò che avesse perduto la testa e, nei tre giorni trascorsi al castello, fu circondato da cure affettuose. Ritornò poi a Napoli, restandovi per qualche settimana ammalato; durante la malattia, due religiosi videro una grande stella entrare dalla finestra e posarsi per un attimo sul capo dell’ammalato e poi scomparire di nuovo, così come era venuta. Intanto nel 1274, dalla Francia papa Gregorio X, ignaro delle sue condizioni di salute, lo invitò a partecipare al Concilio di Lione, indetto per promuovere l’unione fra Roma e l’Oriente; Tommaso volle ancora una volta obbedire, pur essendo cosciente delle difficoltà per lui di intraprendere un viaggio così lungo. Partì in gennaio, accompagnato da un gruppetto di frati domenicani e da Reginaldo, che sperava sempre in una ripresa del suo maestro; a complicare le cose, lungo il viaggio ci fu un incidente, scendendo da Teano, Tommaso si ferì il capo urtando contro un albero rovesciato. Giunti presso il castello di Maenza, dove viveva la nipote Francesca, la comitiva si fermò per qualche giorno, per permettere a Tommaso di riprendere le forze, qui si ammalò nuovamente, perdendo anche l’appetito; si sa che quando i frati per invogliarlo a mangiare gli chiesero cosa desiderasse, egli rispose: “le aringhe”, come quelle che aveva mangiato anni prima in Francia.  
Tutte le cure furono inutili e, sentendo approssimarsi la fine, Tommaso chiese di essere portato nella vicina abbazia di Fossanova, dove i monaci cistercensi l’accolsero con delicata ospitalità; giunto all’abbazia nel mese di febbraio, restò ammalato per circa un mese. Prossimo alla fine, tre giorni prima volle ricevere gli ultimi sacramenti, fece la confessione generale a Reginaldo, e quando l’abate Teobaldo gli portò la Comunione, attorniato dai monaci e amici dei dintorni, Tommaso disse alcuni concetti sulla presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, concludendo: “Ho molto scritto ed insegnato su questo Corpo Sacratissimo e sugli altri sacramenti, secondo la mia fede in Cristo e nella Santa Romana Chiesa, al cui giudizio sottopongo tutta la mia dottrina”. Il mattino del 7 marzo 1274, il grande teologo morì, a soli 49 anni.
Nel 1567 s. Tommaso d’Aquino fu proclamato Dottore della Chiesa e il 4 agosto 1880, patrono delle scuole e università cattoliche. La sua festa liturgica, da secoli fissata al 7 marzo, giorno del suo decesso, dopo il Concilio Vaticano II, che ha raccomandato di spostare le feste liturgiche dei santi dal periodo quaresimale e pasquale, è stata spostata al 28 gennaio, data della traslazione a Tolosa del 1369. Le sue reliquie sono venerate in vari luoghi, a seguito dei trasferimenti parziali dei suoi resti, inizialmente sepolti nella chiesa dell’abbazia di Fossanova, presso l’altare maggiore e poi per alterne vicende e richieste autorevoli, smembrati nel tempo; sono venerate nella Basilica Concattedrale di Aquino, a Fossanova, nella Concattedrale di Priverno, a Tolosa in Francia, portate lì nel 1369 dai Domenicani, su autorizzazione di papa Urbano V, e poi altre a San Severino, su richiesta dalla sorella Teodora e da lì trasferite poi a Salerno; altre reliquie si trovano nell’antico convento dei Domenicani di Napoli e nel Duomo della città.

I verbali del processo di canonizzazione di san Tommaso d’Aquino riportano – forse – il primo miracolo del santo.

Nel recarsi a Lione per il Concilio indetto da Papa Gregorio X, nel 1274, in compagnia di Fra Reginaldo, di alcuni monaci e della sorella, già malato fece sosta al Palazzo baronale di Maenza, ospite della contessa e parente Francesca d’Aquino, sposa del signore del castello, Annibaldo da Ceccano. Colto da estrema debolezza e avendo perso del tutto l’appetito, “venuta la volontà al Santo di mangiare una certa sorte di Sardella o Aringa che in Parigi si mangia e in Italia non si trova” (Flos Sanctorum di Pietro Ribadeneira, 1778), il medico per accontentarlo si recò in piazza e la prima persona che incontrò fu un pescatore, arrivato a Maenza da Terracina con un cesto di pescato diverso: allo scoprire la cesta i pesci si tramutarono miracolosamente in aringhe.

Nei medaglioni del processo di canonizzazione, un frate in visita a san Tommaso testimoniò che quelle mangiate a Maenza erano aringhe fresche, che conosceva solo sotto sale per averle viste alla Curia Romana a Viterbo, e che anche Fra Tommaso, presente al castello, riconobbe per averle gustate in Francia.

I giudici, evidentemente con l’acquolina in bocca, ‘Vi ricordate come le cucinarono?’ ‘Le mangiammo lesse in brodo e anche arrostite‘. Si tratta forse, non solo del primo miracolo si san Tommaso, ma della prima ricetta di una zuppa di pesce.

La leggenda racconta anche un altro miracolo a lui attribuibile quando era bambino a Loreto Aprutino. Di ritorno dalle Crociate, la famiglia di San Tommaso, prima di tornare nella tenuta aquinate, si fermò nel Castello di questo ridente paesino abruzzese. Da quanto si racconta, Tommaso era solito riempire il suo grembiule con il pane preso dalla mensa di casa, di nascosto di tutti, per portarlo ai poveri bisognosi. Il domestico, accortosi di ciò, andò a riferirlo al padre. Quest’ultimo prese a seguirlo e, un giorno, lo fermò e gli chiese dove andasse e cose avesse nel suo grembiule e lui con molta naturalezza rispose che aveva rose e fiori e, per dimostrarlo, allargò il grembiule e caddero effettivamente rose e fiori.

Per conoscere Dio, che supera la comprensione della ragione, non basta la sola ricerca filosofica, ma occorre che Dio stesso intervenga e si riveli in un linguaggio accessibile all’uomo. La Rivelazione – e dunque la fede cristiana – non annulla né rende inutile la ragione. Inoltre le verità scoperte dalla ragione non possono venire in contrasto con le verità rivelate giacché entrambe procedono da Dio, che è luce e verità somma. Qualora apparisse un contrasto, è solo perché si tratta di conclusioni false o non necessarie o non si è indagato a sufficienza. La ragione può essere d’aiuto alla fede in tre modi : 1) dimostrando i preamboli della fede cioè quelle verità la cui dimostrazione è necessaria alla fede stessa (non si può credere in Dio se non si sa se esiste, se è uno o molti ecc., il che può essere fatto dalla ragione); 2) chiarire mediante similitudini le verità della fede, ad es. illustrando in un linguaggio accettabile i misteri della Trinità e dell’Incarnazione; 3) controbattere alle obiezioni che si possono fare alla fede dimostrando che sono false. Nel De ente et essentia Tommaso stabilisce il principio che, riformando la metafisica aristotelica, la rende “adatta” al cristianesimo : la distinzione reale tra essenza ed esistenza. Per Aristotele, potenza e atto corrispondevano a materia e forma. Secondo Tommaso invece l’essenza e l’esistenza stanno tra loro rispettivamente nel rapporto di potenza e atto. L’essenza (chiamata anche quiddità o natura) comprende sia la materia che la forma perché comprende tutto ciò che è espresso nella definizione della cosa. Per es. l’essenza dell’uomo, definito “animal rationale”, comprende sia la materia (animal) che la forma (rationale). Dall’essenza si deve distinguere l’esistenza perché si può comprendere che cosa sia un uomo o l’unicorno o l’araba fenice ma non è ancora detto che quegli esseri esistono nella realtà. Dunque l’essenza e l’esistenza sono distinte e stanno tra loro nel rapporto di potenza e atto. L’essenza è in potenza rispetto all’esistenza, mentre l’esistenza è l’atto dell’essenza. Ecco ora il punto fondamentale : l’unione dell’essenza con l’esistenza, ovvero il passaggio dalla potenza all’atto, ovvero l’individuo reale richiede per Tommaso l’intervento diretto e creativo di Dio. E’ solo Dio che può creare le cose facendole esistere; è solo Dio che può realizzare il passaggio dalla potenza all’atto, ossia dalla essenza all’esistenza, e dare così origine alle varie creature, siano angeli o uomini o animali o piante ecc. Vi sono perciò tre modi in cui l’essenza è nei vari esseri. In primo luogo, in Dio l’essenza è uguale all’esistenza. Solo in Dio essenza ed esistenza si identificano. In altre parole, l’essenza di Dio è di esistere : Egli esiste necessariamente, è eterno, è l’unico essere necessario cioè non può non esistere, mentre tutti gli altri esseri dipendono da lui. Negli angeli, che sono puri spiriti e quindi dotati di sola forma e non di materia, l’essenza è diversa dall’esistenza in quanto il loro essere è creato e finito e si identifica con la sola forma. Infine, negli uomini, negli animali ecc., cioè nelle creature composte di materia e di forma, l’essenza è comunque sempre distinta dall’esistenza ed esistono grazie all’intervento creativo di Dio. in sintesi, potremmo dire che Dio è l’essere, mentre le creature hanno l’essere. Dunque il termine “essere” non è lo stesso quando è riferito a Dio o alle creature. Tra l’essere di Dio e quello delle creature non vi è né identità né assoluta opposizione bensì analogia. Le creature, in quanto esistenti, sono simili a Dio ma Dio non è simile a loro : ecco il principio della analogicità dell’essere (analogo = simile ma di proporzioni diverse). In più, le creature hanno l’essere perché viene dato loro da Dio, il quale partecipa (=dona) loro l’esistenza. Così le creature hanno l’essere per partecipazione, mentre Dio è l’essere per essenza. La distinzione fra l’essere creato e l’essere eterno di Dio porta con sé due importanti conseguenze. In primo luogo permette a Tommaso di salvaguardare l’assoluta trascendenza (superiorità, diversità, alterità, soprannaturalità) di Dio nei confronti del creato e delle creature e di evitare ogni forma di panteismo (che identifica Dio col mondo). In secondo luogo, l’analogicità dell’essere rende impossibile un’unica scienza dell’essere : accanto alla filosofia vi è adesso la scienza che riguarda l’essere necessario e cioè la teologia, la quale è superiore in dignità a tutte le altre scienze, le quali, nei suoi confronti, diventano “ancelle della teologia”. Questo concezione porterà, fra l’altro, ad una graduale svalutazione dello studio della natura, che verrà a fatica ripreso solo più tardi, nel Rinascimento e oltre.

Anche se Dio è il primo nell’ordine degli esseri, non è però primo nell’ordine delle conoscenze umane, le quali iniziano dai sensi, mentre Dio è invisibile. E’ dunque indispensabile dimostrare che Dio esiste pur essendo invisibile, partendo allora dagli effetti, dalle creature, dal mondo visibile e mostrando come essi non siano spiegabili se non rifacendosi a Dio. Le prove dell’esistenza di Dio devono essere perciò a posteriori cioè a partire dalla nostra esperienza del mondo e non a priori ( che parte dal concetto di Dio per dedurne l’esistenza, come l’argomento ontologico di S. Anselmo, che Tommaso rifiuta per motivi che vedremo più avanti). Tommaso elabora così “cinque vie” per giungere a dimostrare che Dio esiste. La prima via è quella del moto, ed è desunta da Aristotele. Essa parte dal principio che tutto ciò che si muove è mosso da altro. Ora, se tutto ciò che è mosso a sua volta si muove, bisogna che anch’esso sia mosso da un’altra cosa e questa da un’altra ancora. Ma non è possibile andare all’infinito altrimenti non vi sarebbe un primo motore e neppure gli altri muoverebbero : infatti il processo all’infinito sposta solo il problema e non trova la ragione ultima del mutamento (in altri termini, il processo all’infinito spiegherebbe la trasmissione del moto ma non la prima origine e causa del moto). E’ dunque necessario arrivare ad un primo motore non mosso da altro, e “tutti riconoscono che esso è Dio”. Da notare che questo moto non è soltanto meccanico e fisico ma metafisico : dovunque c’è moto e quindi divenire che non basta a se stesso, c’è imperfezione che non ha in sé la sua spiegazione e richiede quindi l’intervento di Dio. La seconda via è quella causale. Nel mondo vi è un ordine tra le cause efficienti (causa efficiente è ciò che da origine a qualcosa) ma è impossibile che una cosa sia causa efficiente di se stessa, perché altrimenti sarebbe prima di se stessa, il che è assurdo. Anche in questo caso è impossibile un processo all’infinito, dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente “che tutti chiamano Dio”. Rispetto alla prima via, qui si tratta della causalità efficiente, da cui dipende non solo il divenire ma l’essere delle cose. Dunque Dio non è solo il principio del divenire ma anche la causa, l’origine suprema di tutto ciò che esiste, che è da Lui conservato e creato,pur senza eliminare l’azione delle cause secondarie. La terza via è basata sul rapporto tra il possibile e il necessario. Vi sono cose che possono essere e non essere : infatti alcune nascono e finiscono, il che vuol dire appunto che sono possibili, possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose possono non essere, in un dato momento non ci fu nulla nella realtà. Però, se questo fosse vero, anche ora non esisterebbe nulla, perché ciò che non esiste non comincia ad esistere se non per qualcosa che già esiste. Dunque non è vero che tutti gli esseri sono possibili ma bisogna ammettere che nella realtà vi sia anche un essere necessario, “e questo tutti dicono Dio”. La quarta via è quella dei gradi di perfezione. Si trova nelle cose il più e il meno di ogni perfezione, cioè di bene, vero, bello ecc. Vi sarà dunque anche il grado massimo di tali perfezioni e “questo chiamiamo Dio”. In altri termini, se gli enti hanno gradi diversi di perfezione, vuol dire che questi gradi non derivano dalle loro essenze, e dunque significa che li hanno ricevuti da un essere che dà senza ricevere, perché è la fonte di ogni perfezione, e cioè Dio. La quinta via è quella desunta dal governo delle cose. I corpi fisici (pianeti, stelle ecc.) operano per un fine, come appare dal fatto che operano quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione; donde appare che non a caso, ma per una predisposizione, raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia viene scoccata dall’arciere. Vi è dunque un essere sommamente intelligente da cui tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine, “e questo essere chiamiamo Dio”.

Le verità fondamentali del cristianesimo – Trinità e Incarnazione – non sono dimostrabili con la semplice ragione però la ragione può cercare di chiarire in misura sufficiente il loro contenuto, mostrando che quello che rivela la fede non è impossibile. Per quanto riguarda il dogma della Trinità, la difficoltà è capire come l’unità della sostanza divina si possa conciliare con la trinità delle persone. Tommaso si serve a questo riguardo del concetto di relazione. Le persone divine sono costituite dalla loro relazione di origine : il Padre dalla paternità, cioè dalla relazione col Figlio; il Figlio dalla filiazione o generazione, cioè dal rapporto col Padre; lo Spirito dall’amore, cioè dalla relazione reciproca tra Padre e Figlio. Queste relazioni non sono accidentali in Dio (non vi può essere nulla di accidentale in Dio) ma reali : sussistono realmente nella essenza divina. Proprio l’essenza divina, dunque, nella sua unità, implicando le relazioni, implica la diversità delle tre Persone. Nell’Incarnazione, la difficoltà sta nel comprendere la presenza, nell’unica Persona di Cristo, delle due nature, divina ed umana. Ora, l’essenza o natura divina è identica con l’essere di Dio : Cristo ha natura divina ed è appunto Dio, sussiste come Dio, come persona divina. Egli è quindi una sola persona, quella divina. Data però la separabilità di essenza ed esistenza, Cristo, in quanto Dio, ha potuto benissimo assumere la natura umana (cioè l’anima razionale ed il corpo) senza essere “persona” umana. Si ricordi, a questo riguardo, il significato dei termini “persona” e “natura”. La “persona” indica una realtà distinta, che sussiste di per sé; la “natura” o “sostanza” o “essenza” indica ciò che è in comune ad individui della stessa specie, che quindi non esiste in sé ma solo nelle “persone” a cui è comune. Riguardo poi il problema della creazione dal nulla, Tommaso ritiene che non si possa dimostrare né l’inizio nel tempo né l’eternità del mondo e perciò lascia via libera per credere alla creazione nel tempo. L’essere del mondo viene da Dio : il fiat divino ha dato origine alle cose ma non si inserisce in una successione temporale. E’ un atto creativo che chiama le cose all’essere o, meglio ancora, fa che l’essere sia.

La Chiesa lo ricorda il 28 gennaio. Ad Aquino è festa il 7 marzo, giorno della sua nascita al Cielo. I solenni festeggiamenti si protraggono dall’inizio della novena in preparazione alla festa. Tale evento assume il carattere della solennità: viene celebrato con iniziative religiose, culturali e sociali. Alle celebrazioni religiose si affiancano conferenze e incontri culturali e manifestazioni popolari.

Nella Basilica Concattedrale è custodita la venerata reliquia della costola del suo cuore donata dalla Cattedrale di Tolosa il 19 ottobre del 1963 quando venne consacrata la nuova Cattedrale di Aquino. La statua venerata nella sua città risale al 1893 ed è un dono di papa Leone XIII alla Chiesa di Aquino.

 

INNO A SAN TOMMASO D’AQUINO

  1. Sorgeva da Aquino una stella

nel mistico cielo dei geni:

fu viva e raggiante, fu bella

la luce di eterno splendor.

 

Rit. Salve, Dottore Angelico

       figlio di Aquino, salve!

       La patria tua Ti canta

       Grande tra i Santi in ciel.

 

2. Passasti, o Tommaso, i tuoi giorni

maestro tra gli uomini: salve!

La schiera dei dotti Tu adorni

Col sol che s’irradia da Te.

 

3. E Cristo portasti alle genti

cantando dell’ostia i tesori:

rifulse alle povere menti

la luce del vero: Gesù.

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Il monumento, realizzato dallo scultore faentino Angelo Biancini, si eleva su un’alta stele per circa sette metri. Un’imponente massa bronzea ritrae l’Aquinate in atteggiamento ieratico; sguardo vivo affiso al cielo. Un maestoso libro sul petto del Santo, reso luminoso dal Sole che lo sormonta. Fu inaugurato il 1° settembre 1974, alla presenza del Cardinale Confalonieri che benedisse la statua.

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La Costola del cuore di San Tommaso d’Aquino, ricevuta il 19 ottobre 1963 presso la nuova Chiesa Cattedrale di Aquino e donata dall’allora Arcivescovo di Tolosa, Gabriel Maria Garrone.

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